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Modello Africa o modello Cina?

A cura di Sarua

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Modello Africa o modello Cina?

La penetrazione sempre maggiore della Cina in Africa pone il problema di un modello di sviluppo per il continente: quello che arriva da oltre Muraglia è adattabile alle condizioni locali? E’ una reale alternativa a quello occidentale?

di Mariarosaria Calvetta.

cartina africa

Sospesa tra musica e parole inventa ricette di vita quotidiana. Intuito nomade, segue le correnti ascensionali di ciascuna trasformazione. Quella con QCode è la sua prima collaborazione. Si dice gratificata di esser parte della sua accolita d’artisti.

È in corso un dibattito nel continente africano tra politici, economisti e liberi pensatori sul modello di sviluppo da seguire per incentivare la crescita economica. Da quando il capitalismo cinese ha scalzato i concorrenti occidentali negli scambi con l’Africa dimostrandosi un efficace alternativa, si é aperto lo spazio per riflettere sulle possibili formule economiche che incentivino la modernizzazione del continente. Il China Daily Africa Weekly, lanciato nel dicembre scorso sul mercato editoriale africano come prima fonte di notizie, informazioni e commenti sulle questioni che riguardano il rapporto tra cinesi e africani, s’inserisce nel dibattito a difesa del “mito cinese”.

La pubblicazione di un settimanale era stato tra gli obiettivi principali dichiarati nell’ultimo forum per la Cooperazione Cinese-Africana svolta nel luglio dello scorso anno, un appuntamento triennale ormai consolidato per promuovere la cooperazione economica e culturale e rinnovare un rapporto di fiducia che in dodici anni di forum è andato sempre più consolidandosi: tutti gli obiettivi proposti sono stati raggiunti in tempo o addirittura in anticipo.

Gli investimenti cinesi in Africa sono cresciuti di otto volte: da 1.6 miliardi di dollari nel 2005 a 13.4 miliardi di dollari nel 2010. Il commercio tra Cina e Africa ha avuto una crescita del 35% negli ultimi 10 anni, da 10 miliardi di dollari nel 2000 a 160 miliardi lo scorso anno. Nel 2009 soprattutto, la Cina ha superato gli Stati Uniti come principale partner commerciale dell’Africa. Forte di questo successo, il colosso asiatico può adesso occuparsi della diffusione e della promozione politica della propria serietà d’intenti nel continente.

Una presenza che cambia le regole del gioco

Fonti storiche datate raccontano che quando i cinesi arrivarono in Africa, tra il 1418 e il 1433, non occuparono le terre nè comperarono schiavi, ma presero una giraffa perché l’imperatore la potesse ammirare. I medici poi studiarono le erbe africane e la medicina locale probabilmente per combattere una serie di epidemie che imperversano in Cina a quel tempo.

Nel secolo in cui l’umanità è votata al denaro gli obiettivi cinesi in Africa sono frutto di considerazioni puramente economiche ma non è mai venuta meno la caratteristica propria del modus cinese di stringere accordi, senza eserciti e senza ricatti ideologici. Una linea diplomatica che riscuote grande successo tra i politici africani e su cui i cinese non hanno intenzione di ritrattare, ignorando con scherno lo scetticismo dell’Occidente che vede nell’intervento cinese in Africa la nuova frontiera del colonialismo. “Gli africani sono convinti di poter imparare davvero qualcosa dai cinesi”.

Secondo Chris Alden, docente universitario statunitense ed esperto del rapporto sino-africano, il primo e più importante impatto dell’arrivo dei cinesi in Africa è aver rotto il monopolio ideologico degli occidentali in termini di sviluppo. Per Alden il successo cinese in Africa è cresciuto sulla base di una proposta di scambio: risorse in cambio di infrastrutture, reciproca apertura dei mercati, aiuti finanziari e consulenze tecniche per trattamenti privilegiati. Dopo i fallimenti in termini di sviluppo collezionati dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, la collaborazione ideologicamente svincolata con i cinesi offre all’Africa l’illusione di poter cercare una sua formula di sviluppo. In effetti se il modello proposto dal Consenso di Washington non é riuscito a sostenere l’economia africana, anche le condizioni perché lo sviluppo prenda slancio dall’industria manifatturiera e dall’esportazione a basso costo dei suoi prodotti, com’è successo in Cina, mancano in Africa.

La crescita dell’economia cinese è stata resa possibile da un abbondanza di manodopera dal salario relativamente basso, in un paese che da solo ha più abitanti di tutti gli stati africani messi assieme: il mercato africano è piccolissimo rispetto a quello cinese e la manodopera non è così economica. L’Africa è per lo più ricca di risorse è questo spesso rende l’economia vulnerabile ai prezzi del mercato e allo sfruttamento intensivo.

Secondo Harry Verhoeven, ricercatore del dipartimento di relazioni internazionali di Oxford, gli stati che dipendono dall’esportazione di materie prime non hanno incentivi allo sviluppo dell’economia poiché l’elite politica riceve il denaro di cui necessita dalle multinazionali. Inoltre gli imprenditori locali operano in un mercato poco regolamentato che li emargina a vantaggio delle grandi elite del business. “Il grande merito del colosso asiatico è stato quello di modificare continuamente la pianificazione economica in base alle esigenze del livello di sviluppo raggiunto”. Secondo Sven Grimm, direttore del centro di studi cinese alla Stellenbosch University, in Sud Africa, questa è la grande lezione che l’Africa deve imparare, non solo dalla Cina ma da tutti i paesi sviluppati: è necessario che si adatti continuamente ai cambiamenti.

Il giornalista e vice direttore del Kenya-China Friendship Association, Ngari Gituku, introduce un elemento culturale per tentare di spiegare la scarsa possibilità per l’Africa di adottare un modello di sviluppo cinese. Gli africani sono convinti di non essere portati per guidare l’industrializzazione. “Nelle fabbriche di proprietà asiatica, molti degli africani che lavorano come operatori di macchine non si interessano di comprendere come l’operazione funziona. L’apprendono soltanto, e quello diventa il loro mondo. Non pensano che potrebbero creare un’operazione analoga”. Per questo ritiene che si debba puntare sullo sviluppo del capitale umano, indirizzando i giovani agli studi tecnologici, come ha fatto la Cina.

Deborah Brautigam invece, autrice di un esaustivo studio su rapporti sino-africani (The Dragon’s Gift: the Real Story of China in Africa) sottolinea un argomento di cui è facile fare esperienza in Africa: gli africani potrebbe non voler percorrere la via cinese poiché guidati da una differente etica del lavoro. Gli africani non sono ossessionati dal lavoro duro poiché hanno una grande disponibilità di terra in cui coltivare spesso richiede meno sforzi che altrove: “ Loro hanno a disposizione più terra e meno lavoro, per questo hanno sviluppato un modo di fare agricoltura che risparmia lavoro. Chi ha sviluppato una cultura di sussistenza agricola può davvero voler mai lavorare in fabbrica?”.

Reale alternativa?

I termini del dibattito suggeriscono che nella scelta di un modello di sviluppo da seguire l’Africa dovrebbe tener conto delle attitudini del suo popolo oltre che delle condizioni economiche che gli permetterebbero di avviare un processo di modernizzazione. Le difficoltà per intraprendere la via cinese allo sviluppo sono molteplici e del resto rimane il dubbio che la strategia dei cinesi, quantunque di scambio e non solo di sottrazione, basata sul l’invasione del mercato africano di beni di consumo prodotti in Cina, possa davvero incentivare e sostenere un processo d’industrializzazione che offra lo spazio per una “via africana” allo sviluppo. In cosa si distingue dunque il capitalismo di stato cinese rispetto all’opera di colonizzazione perpetrata dall’occidente? Realmente l’Africa è nelle condizioni di poter decidere le sorti del suo futuro o è piuttosto vittima di nuove formule propagandistiche che continuano a relegarla a giocatore marginale del commercio internazionale con l’illusione di esserne invece protagonista?

Il rischio è che la presenza cinese in Africa stimoli un’accelerazione che poco si accorda col ritmo lento e ancestrale dei popoli africani e che invece di fare da catalizzatore per la transizione africana a un benessere più diffuso, si limiterà a intervenire nella vita della gente solo contagiandola di materialismo. Per popoli vari e fantasiosi, con aspirazioni e preoccupazioni diverse da quella di diventare ricchi, anzi spesso senza aspirazioni e senza preoccupazioni, come gli africani sono, c’è ancora qualche forte scudo a protezione, ma le speranze che i cinesi alimentano, gli ultimi arrivati in un corso storico di scambi impari secolare, potrebbero, com’è successo nel loro paese, invertire un modo di essere e omogeneizzare gli intenti. È questa non è che l’insostenibile via per il progresso.

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